Il precipitoso reveriment
con il quale il Comitato internazionale degli sport paralimpici ha impedito agli
atleti russi e bielorussi di partecipare alle gare che stavano per iniziare,
imponendo loro, di fatto, di lasciare Pechino, rivela come la neutralità
politica dello sport e la sua autonomia non possono considerarsi un valore assoluto.
Per quanto, infatti, lo sport agonistico di alto livello sia prerogativa delle Federazioni
sportive e dei Comitati olimpici cui sono affiliate, tuttavia, quando la grande
maggioranza degli Stati in cui operano tali organismi adotta una decisione
politica, i rispettivi organismi di governo dello sport, obtorto collo, devono
adeguarsi. Ovviamente e sempre per definizione, decisioni simili non possono
che adottarsi in presenza di fatti politicamente gravi e/o di comportamenti che
ledono i principi-valori cristallizzati nella Carta olimpica.
È in questa cornice che si inquadra
il provvedimento di esclusione del 3 marzo 2022 del Comitato Internazionale Paralimpico
degli atleti russi e bielorussi presenti nei villaggi olimpici. Nella
decisione, come spiegato dal Presidente Parsons, pur nella consapevolezza che
sport e politica non devono mischiarsi – “[…] we are very firm believers that sport and
politics should not mix” – si osserva però che
la guerra è entrata anche nei Giochi olimpici e le decisioni prese dai Governi
impattano inevitabilmente su di essi – “[…] the war has now come to these
Games and behind the scenes many Governments are having an influence on our
cherished event”. Benché, quindi, non si siano verificati scontri tra gli
atleti appartenenti alle delegazioni dei Paesi in conflitto, tuttavia, nei villaggi
olimpici si percepisce una tensione sempre più crescente a causa
dell’escalation del conflitto, al punto, si chiarisce, che diverse delegazioni
hanno informato il Comitato che, qualora non si fossero esclusi gli atleti
russi e bielorussi dalle gare, si sarebbero fatti ritirare i propri. Di
conseguenza, nonostante la totale estraneità degli atleti russi e bielorussi a
fatti riconducibili alla guerra, la loro presenza nelle gare avrebbe coinciso
con il ritiro di quasi tutti gli altri e con molta probabilità sarebbe saltata l’intera
competizione – “The IPC is a membership-based organisation, and we are
receptive to the views of our member organisations”. La colpa non è dunque
degli atleti, ma dei loro Governi. Dinanzi alla fermezza delle autorità degli Stati
le cui delegazioni olimpiche erano presenti nel territorio sede delle gare (il
Presidente non li nomina specificamente, ma dalle sue parole si comprende che
si riferisce a numerosi Stati presenti alla competizione olimpica),
il Comitato Internazionale doveva quindi prendere atto che, in assenza di una
esclusione degli atleti russi e bielorussi, non si sarebbero celebrati i Giochi
paralimpici. Da un lato, dunque doveva tutelarsi la sicurezza degli atleti che
soggiornano nei villaggi olimpici – “[…] and the situation in the athlete villages is escalating and has
now become untenable” – e dall’altro si doveva salvaguardare la
realizzazione della stessa competizione sportiva – “With this in
mind, and in order to preserve the integrity of these Games and the safety of
all participants”. Di qui, in conformità
alla “costituzione” – “[…] first
and foremost, we have a duty as part of the Paralympic mission, enshrined in
the constitution” – le ragioni dell’esclusione
dalle gare di tali atleti, ai quali, come detto, non poteva
essere imputata alcuna responsabilità diretta, al punto che il Presidente
Parsons si scusava con loro, addebitando ai rispettivi Governi la causa dell’esclusione – “[…] To the Para athletes from the impacted countries, we are very sorry that
you are affected by the decisions your governments took last week in breaching
the Olympic Truce”. In definitiva, gli
83 atleti russi e bielorussi presenti nei villaggi olimpici erano vittime delle
azioni dei loro Governi – “[…] you are victims of your governments’ actions”.
Trattasi di una decisione mai
adottata nelle competizioni olimpiche, ma che, a onore del vero, scaturiva da
un comportamento di uno Stato mai verificatosi in passato: da quando De
Coubertin aveva restituito allo sport le gare olimpiche, infatti, mai uno Stato
aveva violato apertamente la tregua olimpica. Che si fosse in presenza di tale
situazione è del resto fuor di dubbio: da quando esistono gli sport paralimpici,
infatti, le due competizioni, ossia le Olimpiadi e le Paralimpiadi, si sono
susseguite con pochi giorni di distanza l’una dall’altra e si sono tenute nella
stessa sede. Dunque, la competizione olimpica è unica. Colpisce, del resto, che
lo stesso Presidente russo Putin, alcuni giorni prima, abbia addirittura presenziato
alle competizioni olimpiche incontrando il Presidente cinese, attribuendo,
quindi, grande importanza all’evento olimpico. Peccato che poi, ordinando l’invasione
dell’Ucraina a distanza di pochissimi giorni dall’inizio delle Paralimpiadi, dimostrava
di non attribuire alcun valore allo sport paralimpico. Già in passato, preme
osservare, alcuni Governi avevano utilizzato l’arma del boicottaggio come forma
di protesta, non inviando le proprie delegazioni alle gare olimpiche,
stigmatizzando, così, i comportamenti e le azioni di altri Stati. Tuttavia, mai
si era verificato che atleti già presenti ad una competizione olimpica, avessero
dovuto abbandonare il villaggio perché i rispettivi Governi avevano dichiarato
guerra ad un altro Paese. Nei Giochi olimpici di Melbourne iniziati il 22 novembre
1956, per esempio, le delegazioni di
Spagna, Paesi Bassi e Svizzera decisero di non inviare i propri atleti in segno
di protesta contro l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione sovietica, ma
in quel caso non era stata violata la tregua olimpica perché la guerra era stata
rapidissima, essendo iniziata il 23 ottobre e conclusa il 4 novembre quando fu ricostituito
un governo filosovietico
diretto da János Kádár. Analogamente, l’invasione dell’Afghanistan,
sempre da parte dell’Unione Sovietica, cui fece seguito il boicottaggio di 65
delegazioni (tra le quali, quelle di Stati uniti, Canada, Israele, Giappone,
Cina e Germania Ovest) alle Olimpiadi di Mosca, non aveva violato la tregua
olimpica essendo iniziata un anno prima (nel dicembre 1979).
Il caso in epigrafe è dunque unico.
Anzi, è molto probabile che l’atto in sé di violazione della tregua olimpica attraverso
un atto di guerra fosse inimmaginabile per i redattori della Carta olimpica al
punto da non ritenere di dover inserire una norma espressa nel Testo. La
spiegazione è plausibile: trattasi di un fatto talmente grave da non avere
bisogno di tradursi in un divieto espresso: “rompere” la tregua olimpica
invadendo un Paese si trasduce infatti nella “rottura” di tutto il “giocattolo”
olimpico. A questa conclusione si perviene dalla lettura ed interpretazione
teleologica della stessa Carta. Quest’ultima, autodefinendosi “a basic
instrument of a constitutional nature”, si articola in 7 principi
fondamentali (i primi articoli definiti, appunto, i Principi fondamentali
dell’Olimpismo) seguiti da 61 regole a loro volta dettagliate in numerose
disposizioni attuative (bye-laws). Essa, come tutte la Carte costituzionali
statali, prevede un procedimento aggravato per la sua modifica (regola 18)
e, sempre sulla falsariga delle Costituzioni statali, identifica il suo
“popolo”, ossia il Movimento olimpico, non solo in un motto – Citius
± Altius ± Fortius – ma anche in una bandiera. In altra sede (cfr. intervento del 28
febbraio scorso su questo blog), avevo osservato che la Carta, per queste sue caratteristiche,
proprio come le Costituzioni statali, dovrebbe essere interpretata alla luce
dei principi ivi contemplati, regolando le diverse fattispecie attraverso il bilanciamento
degli uni con gli altri, non senza dimenticare che il fenomeno dell’Olimpismo
deve però convivere con gli ordinamenti costituzionali dei Paesi democratici e
con le convenzioni internazionali ratificate dalla maggior parte di essi.
Ebbene, nel caso in epigrafe, si
deve anzitutto richiamare il principio fondamentale n. 5, il quale, dopo aver
ribadito la centralità dello sport nella società, stabilisce che tutte le
organizzazioni sportive aderenti al Movimento olimpico devono essere
politicamente neutrali – “[…] shall apply political neutrality”. In
correlazione a questo dovere, le Istituzioni ed i soggetti del Movimento
olimpico hanno il diritto-dovere di autonomia, ossia di avere il totale
controllo delle regole dello sport - “[…]
they have the rights and obligations of autonomy, which include freely
establishing and controlling the rules of sport” –, determinando le rispettive
strutture di governo nel rispetto dei principi di buon governo – “[…] enjoying
the right of elections free from any outside influence and the responsibility
for ensuring that principles of good governance be applied”. Tale principio,
come già detto, è correlato alla regola 50 che rafforza il dovere di neutralità
politica, vietando ai soggetti del
Movimento olimpico di porre in essere ogni tipo di “dimostrazione politica” –
“[…] or political, religious or racial” in tutti luoghi
dove si svolgono le competizioni sportive – “[…] in any Olympic sites,
venues or other areas”. Parimenti correlata
a questo caso è la regola 6, che stabilisce che i Giochi olimpici sono
competizioni tra squadre ed atleti e non tra Paesi – “[…] and not between
countries” – e gli atleti, a loro volta, devono essere selezionati dai
rispettivi Comitati olimpici (e non dagli Stati).
In questo quadro si inserisce la
decisione adottata dal Comitato internazionale paralimpico. A tal fine, è anzitutto
coerente domandarsi, non esistendo alcuna specifica norma che impone
l’espulsione degli atleti i cui Governi hanno violato la tregua olimpica, quale
sia la base giuridica della decisione adottata che avrebbe fatto venire meno il
generale principio di neutralità politica. Quali sono le fonti giuridiche della
esclusione degli atleti russi e bielorussi, posto che le Olimpiadi, come più
sopra affermato, non sono competizioni tra Stati, ma tra atleti? Non sarebbe
stato sufficiente inibire gli atleti russi e bielorussi dall’utilizzazione
delle bandiere nazionali e dalla rappresentazione dei loro inni? La risposta è
nelle stesse parole del Presidente Parsons. In forza della “costituzione”
olimpica, ha affermato, il Comitato ha il “dovere” di “garantire e
sovraintendere alla buona riuscita dei Giochi paralimpici”, i quali, a causa
dell’escalation del conflitto, sono a rischio, sia per la “sicurezza” degli
atleti che soggiornano nei villaggi sia per la minaccia di ritiro di quasi
tutte le delegazioni presenti in Cina.
Preme osservare che ai sensi del principio
fondamentale n. 2, la finalità dell’Olimpismo è quella di porre lo sport al
servizio dello sviluppo armonioso dell’umanità, al fine di promuovere una
società pacifica in cui sia preservata la dignità umana. Di conseguenza, è
lampante che il principio di neutralità politica debba regredire se un Paese muove
guerra ad un altro durante le Olimpiadi, in quanto il primo trasgredisce, prima
di tutto, l’essenza stessa dell’Olimpismo. Le autorità di governo dello sport,
in simili eccezionalissime circostanze, non possono che cedere alla “ragion di
stato” derivante dalla decisione concorde di quasi tutti i Governi cui fanno
capo le delegazioni presenti nella competizione olimpica: le Olimpiadi, infatti
e per definizione, non hanno ragion d’essere se si è in guerra e se a causa di
essa vi partecipano un numero risibile di atleti.