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SNL SPORT LAW AND MANAGEMENT - Il blog ufficiale del Corso di Laurea Unisalento in Diritto e Management dello Sport

martedì 29 marzo 2022

MANCINI RESTA, COSI’ COME I PROBLEMI DEL CALCIO ITALIANO. INTERVENTO DI ANGELO BARNABA (Avvocato Stella d’Argento al merito sportivo)

E’ notizia di ieri il ripensamento di Roberto Mancini, che avrebbe deciso di non dimettersi più dopo aver fallito la qualificazione al Mondiale in Qatar. Resterà quindi C.T. della Nazionale, onorando il contratto sottoscritto nel maggio 2021 (scadenza 2026, 3 milioni di euro netti all’anno).

Una conclusione prevedibile e tutto sommato accettabile, soprattutto per la mancanza di alternative adeguate alla delicatezza dell’incarico: forse solo Ancelotti (mago nella gestione dei suoi team) e Gasperini (uno dei pochissimi capaci di proporre in Italia un’idea differente di calcio, più in linea con l’intensità richiesta a livello internazionale) potevano apparire soluzioni di profilo, ma difficilmente sarebbero stati subito disponibili.

A mio avviso Mancini ha sbagliato tante scelte, all’indomani del grande successo dello scorso luglio a Wembley. E tuttavia, crocifiggendo il C.T. dopo la mancata qualificazione, che fa il paio con quella di 4 anni fa (con Ventura in panchina), si sarebbe consumato null’altro che il consueto rito pagano: offrire, figurativamente, un sacrificio umano per espiare le colpe di tutti, attivando in quel modo un (penoso) meccanismo autoassolutorio da parte delle componenti maggiormente responsabili degli attuali risultati.

La verità è che vincere gli Europei, al culmine di una lunga striscia positiva, è stato come cogliere una rosa nel deserto. Perché solo di deserto si può parlare, in termini di risultati, per il calcio italiano negli ultimi 15 anni.
Al di la’ del fatto che non giocheremo il secondo Mondiale di seguito, in questo lunghissimo lasso di tempo le squadre di club hanno vinto una sola volta la Champions League, con l’Inter nel 2009/2010. Interessante ricordare con che formazione:
Julio Cesar; Maicon, Lucio, Samuel, Chivu; Zanetti, Cambiasso; Pandev, Sneijder, Eto’o; Milito. All: José Mourinho
Non un italiano nell’undici titolare, guidato da un tecnico portoghese.

Se parliamo di Europa League, per trovare l’ultimo successo di una squadra italiana dobbiamo andare indietro addirittura di 23 (ventitre!) anni: fu il Parma ad aggiudicarsi il trofeo, nella stagione 1998/99. Da allora più nulla, in una competizione che ha visto trionfare nel 2009 anche gli ucraini dello Shakhtar Donetsk, club di riferimento di quel Donbass che è proprio l’attuale epicentro del conflitto iniziato con l’invasione da parte della Russia poco più di un mese fa.

Forse basterebbe avere un po’ di memoria per rendersi conto che l’impresa eccezionale è stata vincere gli ultimi Europei e che il resto è null’altro che la (dolorosa ma ineluttabile) conseguenza di un sistema vecchio ed arroccato su sé stesso, che corre a larghe falcate verso il baratro dell’implosione.

I club sono quasi tutti pieni di debiti, ma malgrado questo sono pochi quelli che hanno sposato progetti sostenibili. Vale soprattutto per i massimi livelli, diventati facile preda per investitori stranieri, attratti dalla possibilità di fare shopping a prezzi di svendita… per fine attività. Ma in realtà, in qualunque categoria la sopravvivenza è legata – per la quasi totalità dei sodalizi – all’apporto diretto e continuo di qualche mecenate alla ricerca di emozioni/visibilità e/o intento a perseguire altri interessi economici, servendosi del calcio come strumento di penetrazione sociale.

Al netto di poche eccezioni, vetusti e impresentabili, e non solo per gli attuali standard internazionali, sono i nostri stadi, spesso privati finanche della manutenzione ordinaria ed abbandonati ai guasti dell’usura e del tempo.

La governance, che dovrebbe promuovere i necessari cambiamenti, appare a sua volta troppo datata per esprimere una vision di profilo moderno e troppo debole per imporre riforme strutturali. Le quali, per essere accettate da tutte le componenti, dovrebbero compendiare strategie win – win, elaborate facendo ricorso ad una progettualità ineccepibile e rigorosa, quasi scientifica nella pianificazione dei vantaggi sul medio/lungo termine.     
Quanto ai protagonisti in campo, dice molto il fatto che il giocatore icona della Serie A sia attualmente Zlatan Ibrahimovic, a 40 anni il volto più noto e ricercato dai grandi brand per pubblicizzare prodotti e servizi. Come del resto Giorgio Chiellini, 37 anni, altro super veterano. Mentre solo pochissimi club hanno il coraggio di investire seriamente sui migliori giovani talenti, lanciandoli nel nostro massimo campionato intorno ai vent’anni, come accade all’estero, in quella che è di sicuro una fase decisiva della loro carriera. Viceversa, molti di loro devono accontentarsi di giocare nel Campionato Primavera, anche quando militano in società che non lottano per vincere il campionato o accedere alla Champions League.

Quanto ai tifosi, manca il ricambio. Perché le nuove generazioni non riescono ad appassionarsi ad un prodotto così poco attrattivo: basta guardare le partite della Premier League per rendersi conto della differenza di velocità del gioco (che richiede maggiori abilità tecniche e qualità fisiche) e dell’adrenalina che produce negli spettatori, tenendoli avvinti. In Italia invece le gare sono esasperatamente tattiche, i ritmi bassi, le pause continue, anche per i tanti interventi dei direttori di gara: con queste premesse, è difficile conquistare un pubblico giovane, che viaggia su ben altri ritmi e frequenze.

Un cenno finale all’informazione sportiva: anche i grandi esperti e gli analisti che pontificano in TV sembrano ormai fuori tempo e le loro analisi spesso peccano di saccenteria ed autoreferenzialità. Tra pseudo virtuosi del linguaggio, alla perenne ricerca della frase ad effetto, ed iracondi “a comando”, per i quali i toni – sempre eccessivamente alti - che utilizzano per attirare l’attenzione ed attizzare la polemica sembrano contare molto di più dei contenuti.

In definitiva, il calcio italiano mi appare solo vittima di sè stesso e dei suoi atavici vizi, dai quali di tanto in tanto finge di voler guarire. Prigioniero della sua idea di grandezza, benchè sia ormai da tempo evaporata.
Ricorda un po’ Zeno, il personaggio dell’opera di Italo Svevo, e la frase iconica del romanzo di cui è protagonista: “Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio, perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente”.


Angelo Barnaba
Avvocato
Stella d’Argento al merito sportivo 

 


 


Per Roberto Ghiretti “è il futuro che pilota il presente”

“Roberto Ghiretti è un gentiluomo dell’altro secolo” ha esordito con queste parole Giovanni Malagò in occasione del convegno “Lo sport, la più grande rete sociale del Paese: verso una moderna società sportiva” che si è tenuto a Roma, nel prestigioso Salone d’Onore del CONI, venerdì 15 ottobre. Ed ha continuato: “Ma quando poi ti siedi ad ascoltarlo mentre ti racconta idee e progetti, rimani affascinato dalla sua capacità di guardare al futuro, di immaginarlo da qui ai prossimi venti anni.”

Il presidente del CONI con la sua tradizionale oratoria, contrassegnata da paradossi e ossimori concettuali, non è andato molto lontano nel descrivere, in pochi tratti, Roberto Ghiretti, fondatore di SG Plus Ghiretti & Partners (che quest’anno, proprio in occasione del convegno, ha festeggiato i 20 anni di vita) e autore del libro “E’ il futuro che pilota il presente – Il ruolo della società sportiva nel territorio, tra idea e realtà” (Kriss editore, pg. 160, € 16,00).

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giovedì 24 marzo 2022

Assegnato il primo premio “Passione e Formazione”, simbolo della collaborazione tra FIPAV e Università del Salento – Fipav Puglia Magazine

E’ stato assegnato ieri sera al capitano della Cuore di Mamma Cutrofiano, formazione campione territoriale U18 femminile, il primo premio “Passione e Formazione“, nato dalla collaborazione tra FIPAV e Università del Salento. La targa, consegnata dal Prof. Attilio Pisanò, Presidente del Corso di laurea in Diritto e Management dello sport dell’Università del Salento, è il simbolo del connubio tra Sport e Formazione che rappresenta in se l’obiettivo del riuscire a realizzarsi tanto nello Sport quanto nello studio e di conseguenza nel mondo del lavoro. Il percorso, avviato dal Comitato Territoriale FIPAV Lecce, che vede la Federazione Italiana Pallavolo al fianco dell’Università del Salento, ha già visto diversi momenti di affiancamento dalla presenza del tecnico della nazionale italiana Fefè De Giorgi in occasione della presentazione del progetto “Soft e Life Skills” al prossimo appuntamento di venerdì 8 aprile quando il campione del mondo Andrea Zorzi incontrerà gli studenti dell’Università del Salento per raccontare la pallavolo dalla Generazione dei Fenomeni ad oggi in quello che sarà il più ampio percorso “Sport come mezzo di..” che girerà la Puglia per raccontare la pallavolo come veicolo di valori.

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Lo sport in Costituzione

mercoledì 23 marzo 2022

Dal Salento all'Atalanta: segna e sogna Cissè. Intervista all’avvocato Roberto Nitto a cura di Andrea Tafuro giornalista di Nuovo Quotidiano di Puglia

 

 

Dal Salento all'Atalanta: segna e sogna Cissè. Intervista all’avvocato Roberto Nitto (nella foto sotto) a cura di Andrea Tafuro giornalista di Nuovo Quotidiano di Puglia 




 

 

martedì 8 marzo 2022

La rottura della tregua olimpica alla luce dei valori dell’Olimpismo. Intervento del Prof. Luigi Melica

Il precipitoso reveriment con il quale il Comitato internazionale degli sport paralimpici ha impedito agli atleti russi e bielorussi di partecipare alle gare che stavano per iniziare, imponendo loro, di fatto, di lasciare Pechino, rivela come la neutralità politica dello sport e la sua autonomia non possono considerarsi un valore assoluto. Per quanto, infatti, lo sport agonistico di alto livello sia prerogativa delle Federazioni sportive e dei Comitati olimpici cui sono affiliate, tuttavia, quando la grande maggioranza degli Stati in cui operano tali organismi adotta una decisione politica, i rispettivi organismi di governo dello sport, obtorto collo, devono adeguarsi. Ovviamente e sempre per definizione, decisioni simili non possono che adottarsi in presenza di fatti politicamente gravi e/o di comportamenti che ledono i principi-valori cristallizzati nella Carta olimpica.

È in questa cornice che si inquadra il provvedimento di esclusione del 3 marzo 2022 del Comitato Internazionale Paralimpico degli atleti russi e bielorussi presenti nei villaggi olimpici. Nella decisione, come spiegato dal Presidente Parsons, pur nella consapevolezza che sport e politica non devono mischiarsi – “[…] we are very firm believers that sport and politics should not mix” –  si osserva però che la guerra è entrata anche nei Giochi olimpici e le decisioni prese dai Governi impattano inevitabilmente su di essi – “[…] the war has now come to these Games and behind the scenes many Governments are having an influence on our cherished event”. Benché, quindi, non si siano verificati scontri tra gli atleti appartenenti alle delegazioni dei Paesi in conflitto, tuttavia, nei villaggi olimpici si percepisce una tensione sempre più crescente a causa dell’escalation del conflitto, al punto, si chiarisce, che diverse delegazioni hanno informato il Comitato che, qualora non si fossero esclusi gli atleti russi e bielorussi dalle gare, si sarebbero fatti ritirare i propri. Di conseguenza, nonostante la totale estraneità degli atleti russi e bielorussi a fatti riconducibili alla guerra, la loro presenza nelle gare avrebbe coinciso con il ritiro di quasi tutti gli altri e con molta probabilità sarebbe saltata l’intera competizione – “The IPC is a membership-based organisation, and we are receptive to the views of our member organisations”. La colpa non è dunque degli atleti, ma dei loro Governi. Dinanzi alla fermezza delle autorità degli Stati le cui delegazioni olimpiche erano presenti nel territorio sede delle gare (il Presidente non li nomina specificamente, ma dalle sue parole si comprende che si riferisce a numerosi Stati presenti alla competizione olimpica)[1], il Comitato Internazionale doveva quindi prendere atto che, in assenza di una esclusione degli atleti russi e bielorussi, non si sarebbero celebrati i Giochi paralimpici. Da un lato, dunque doveva tutelarsi la sicurezza degli atleti che soggiornano nei villaggi olimpici – “[…] and the situation in the athlete villages is escalating and has now become untenable– e dall’altro si doveva salvaguardare la realizzazione della stessa competizione sportiva – “With this in mind, and in order to preserve the integrity of these Games and the safety of all participants. Di qui, in conformità alla “costituzione” –  “[…] first and foremost, we have a duty as part of the Paralympic mission, enshrined in the constitution” –  le ragioni dell’esclusione dalle gare di tali atleti[2], ai quali, come detto, non poteva essere imputata alcuna responsabilità diretta, al punto che il Presidente Parsons si scusava con loro, addebitando ai rispettivi Governi la causa dell’esclusione – “[…] To the Para athletes from the impacted countries, we are very sorry that you are affected by the decisions your governments took last week in breaching the Olympic Truce”.  In definitiva, gli 83 atleti russi e bielorussi presenti nei villaggi olimpici erano vittime delle azioni dei loro Governi – “[…] you are victims of your governments’ actions”.

Trattasi di una decisione mai adottata nelle competizioni olimpiche, ma che, a onore del vero, scaturiva da un comportamento di uno Stato mai verificatosi in passato: da quando De Coubertin aveva restituito allo sport le gare olimpiche, infatti, mai uno Stato aveva violato apertamente la tregua olimpica. Che si fosse in presenza di tale situazione è del resto fuor di dubbio: da quando esistono gli sport paralimpici, infatti, le due competizioni, ossia le Olimpiadi e le Paralimpiadi, si sono susseguite con pochi giorni di distanza l’una dall’altra e si sono tenute nella stessa sede. Dunque, la competizione olimpica è unica. Colpisce, del resto, che lo stesso Presidente russo Putin, alcuni giorni prima, abbia addirittura presenziato alle competizioni olimpiche incontrando il Presidente cinese, attribuendo, quindi, grande importanza all’evento olimpico. Peccato che poi, ordinando l’invasione dell’Ucraina a distanza di pochissimi giorni dall’inizio delle Paralimpiadi, dimostrava di non attribuire alcun valore allo sport paralimpico. Già in passato, preme osservare, alcuni Governi avevano utilizzato l’arma del boicottaggio come forma di protesta, non inviando le proprie delegazioni alle gare olimpiche, stigmatizzando, così, i comportamenti e le azioni di altri Stati. Tuttavia, mai si era verificato che atleti già presenti ad una competizione olimpica, avessero dovuto abbandonare il villaggio perché i rispettivi Governi avevano dichiarato guerra ad un altro Paese. Nei Giochi olimpici di Melbourne iniziati il 22 novembre 1956, per esempio, le delegazioni di Spagna, Paesi Bassi e Svizzera decisero di non inviare i propri atleti in segno di protesta contro l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione sovietica, ma in quel caso non era stata violata la tregua olimpica perché la guerra era stata rapidissima, essendo iniziata il 23 ottobre e conclusa il 4 novembre quando fu ricostituito un governo filosovietico diretto da János Kádár. Analogamente, l’invasione dell’Afghanistan, sempre da parte dell’Unione Sovietica, cui fece seguito il boicottaggio di 65 delegazioni (tra le quali, quelle di Stati uniti, Canada, Israele, Giappone, Cina e Germania Ovest) alle Olimpiadi di Mosca, non aveva violato la tregua olimpica essendo iniziata un anno prima (nel dicembre 1979).

Il caso in epigrafe è dunque unico. Anzi, è molto probabile che l’atto in sé di violazione della tregua olimpica attraverso un atto di guerra fosse inimmaginabile per i redattori della Carta olimpica al punto da non ritenere di dover inserire una norma espressa nel Testo. La spiegazione è plausibile: trattasi di un fatto talmente grave da non avere bisogno di tradursi in un divieto espresso: “rompere” la tregua olimpica invadendo un Paese si trasduce infatti nella “rottura” di tutto il “giocattolo” olimpico. A questa conclusione si perviene dalla lettura ed interpretazione teleologica della stessa Carta. Quest’ultima, autodefinendosi “a basic instrument of a constitutional nature”, si articola in 7 principi fondamentali (i primi articoli definiti, appunto, i Principi fondamentali dell’Olimpismo) seguiti da 61 regole a loro volta dettagliate in numerose disposizioni attuative (bye-laws). Essa, come tutte la Carte costituzionali statali, prevede un procedimento aggravato per la sua modifica (regola 18)[3] e, sempre sulla falsariga delle Costituzioni statali, identifica il suo “popolo”, ossia il Movimento olimpico, non solo in un motto – Citius ± Altius ± Fortius – ma anche in una bandiera. In altra sede (cfr. intervento del 28 febbraio scorso su questo blog), avevo osservato che la Carta, per queste sue caratteristiche, proprio come le Costituzioni statali, dovrebbe essere interpretata alla luce dei principi ivi contemplati, regolando le diverse fattispecie attraverso il bilanciamento degli uni con gli altri, non senza dimenticare che il fenomeno dell’Olimpismo deve però convivere con gli ordinamenti costituzionali dei Paesi democratici e con le convenzioni internazionali ratificate dalla maggior parte di essi.

Ebbene, nel caso in epigrafe, si deve anzitutto richiamare il principio fondamentale n. 5, il quale, dopo aver ribadito la centralità dello sport nella società, stabilisce che tutte le organizzazioni sportive aderenti al Movimento olimpico devono essere politicamente neutrali – “[…] shall apply political neutrality”. In correlazione a questo dovere, le Istituzioni ed i soggetti del Movimento olimpico hanno il diritto-dovere di autonomia, ossia di avere il totale controllo delle regole dello sport  - “[…] they have the rights and obligations of autonomy, which include freely establishing and controlling the rules of sport” –, determinando le rispettive strutture di governo nel rispetto dei principi di buon governo – “[…] enjoying the right of elections free from any outside influence and the responsibility for ensuring that principles of good governance be applied”. Tale principio, come già detto, è correlato alla regola 50 che rafforza il dovere di neutralità politica, vietando ai soggetti del Movimento olimpico di porre in essere ogni tipo di “dimostrazione politica” – “[…] or political, religious or racial in tutti luoghi dove si svolgono le competizioni sportive – “[…] in any Olympic sites, venues or other areas”.  Parimenti correlata a questo caso è la regola 6, che stabilisce che i Giochi olimpici sono competizioni tra squadre ed atleti e non tra Paesi – “[…] and not between countries” – e gli atleti, a loro volta, devono essere selezionati dai rispettivi Comitati olimpici (e non dagli Stati).

In questo quadro si inserisce la decisione adottata dal Comitato internazionale paralimpico. A tal fine, è anzitutto coerente domandarsi, non esistendo alcuna specifica norma che impone l’espulsione degli atleti i cui Governi hanno violato la tregua olimpica, quale sia la base giuridica della decisione adottata che avrebbe fatto venire meno il generale principio di neutralità politica. Quali sono le fonti giuridiche della esclusione degli atleti russi e bielorussi, posto che le Olimpiadi, come più sopra affermato, non sono competizioni tra Stati, ma tra atleti? Non sarebbe stato sufficiente inibire gli atleti russi e bielorussi dall’utilizzazione delle bandiere nazionali e dalla rappresentazione dei loro inni? La risposta è nelle stesse parole del Presidente Parsons. In forza della “costituzione” olimpica, ha affermato, il Comitato ha il “dovere” di “garantire e sovraintendere alla buona riuscita dei Giochi paralimpici”, i quali, a causa dell’escalation del conflitto, sono a rischio, sia per la “sicurezza” degli atleti che soggiornano nei villaggi sia per la minaccia di ritiro di quasi tutte le delegazioni presenti in Cina[4].  Preme osservare che ai sensi del principio fondamentale n. 2, la finalità dell’Olimpismo è quella di porre lo sport al servizio dello sviluppo armonioso dell’umanità, al fine di promuovere una società pacifica in cui sia preservata la dignità umana. Di conseguenza, è lampante che il principio di neutralità politica debba regredire se un Paese muove guerra ad un altro durante le Olimpiadi, in quanto il primo trasgredisce, prima di tutto, l’essenza stessa dell’Olimpismo. Le autorità di governo dello sport, in simili eccezionalissime circostanze, non possono che cedere alla “ragion di stato” derivante dalla decisione concorde di quasi tutti i Governi cui fanno capo le delegazioni presenti nella competizione olimpica: le Olimpiadi, infatti e per definizione, non hanno ragion d’essere se si è in guerra e se a causa di essa vi partecipano un numero risibile di atleti.



[1] Questo passaggio si ritrova nel comunicato: “Multiple NPCs, some of which have been contacted by their governments, teams and athletes, are threatening not to compete”.

[2] Ancora, nel comunicato: “[…] to guarantee and supervise the organization of successful Paralympic Games, to ensure that in sport practiced within the Paralympic Movement the spirit of fair play prevails, violence is banned, the health risk of the athletes is managed and fundamental ethical principles are upheld”.

[3] Art. 18 Carta olimpica: “The quorum required for a Session is half the total membership of the IOC plus one. Decisions of the Session are taken by a majority of the votes cast; however, a majority of two-thirds of the votes cast is required for any modification of the Fundamental Principles of Olympism, of the Rules of the Olympic Charter, or if elsewhere provided in the Olympic Charter.

[4] Anche se, preme osservare, non è incongruo affermare che tra gare olimpiche e gare paralimpiche non possa esserci per definizione discontinuità temporale, posto che le seconde seguono sempre a distanza di pochi giorni dalla fine delle prime.

 

*Prof. Luigi Melica (nella Foto) 

 


 

sabato 5 marzo 2022

IPC to decline athlete entries from RPC and NPC Belarus for Beijing 2022

IPC to decline athlete entries from RPC and NPC Belarus for Beijing 2022: - Multiple NPCs, teams and athletes now threatening not to compete, jeopardising the viability of the Beijing 2022 Paralympic Winter Games, - Situation in the athlete villages is escalating and ensuring the safety of athletes has become untenable