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martedì 8 marzo 2022

La rottura della tregua olimpica alla luce dei valori dell’Olimpismo. Intervento del Prof. Luigi Melica

Il precipitoso reveriment con il quale il Comitato internazionale degli sport paralimpici ha impedito agli atleti russi e bielorussi di partecipare alle gare che stavano per iniziare, imponendo loro, di fatto, di lasciare Pechino, rivela come la neutralità politica dello sport e la sua autonomia non possono considerarsi un valore assoluto. Per quanto, infatti, lo sport agonistico di alto livello sia prerogativa delle Federazioni sportive e dei Comitati olimpici cui sono affiliate, tuttavia, quando la grande maggioranza degli Stati in cui operano tali organismi adotta una decisione politica, i rispettivi organismi di governo dello sport, obtorto collo, devono adeguarsi. Ovviamente e sempre per definizione, decisioni simili non possono che adottarsi in presenza di fatti politicamente gravi e/o di comportamenti che ledono i principi-valori cristallizzati nella Carta olimpica.

È in questa cornice che si inquadra il provvedimento di esclusione del 3 marzo 2022 del Comitato Internazionale Paralimpico degli atleti russi e bielorussi presenti nei villaggi olimpici. Nella decisione, come spiegato dal Presidente Parsons, pur nella consapevolezza che sport e politica non devono mischiarsi – “[…] we are very firm believers that sport and politics should not mix” –  si osserva però che la guerra è entrata anche nei Giochi olimpici e le decisioni prese dai Governi impattano inevitabilmente su di essi – “[…] the war has now come to these Games and behind the scenes many Governments are having an influence on our cherished event”. Benché, quindi, non si siano verificati scontri tra gli atleti appartenenti alle delegazioni dei Paesi in conflitto, tuttavia, nei villaggi olimpici si percepisce una tensione sempre più crescente a causa dell’escalation del conflitto, al punto, si chiarisce, che diverse delegazioni hanno informato il Comitato che, qualora non si fossero esclusi gli atleti russi e bielorussi dalle gare, si sarebbero fatti ritirare i propri. Di conseguenza, nonostante la totale estraneità degli atleti russi e bielorussi a fatti riconducibili alla guerra, la loro presenza nelle gare avrebbe coinciso con il ritiro di quasi tutti gli altri e con molta probabilità sarebbe saltata l’intera competizione – “The IPC is a membership-based organisation, and we are receptive to the views of our member organisations”. La colpa non è dunque degli atleti, ma dei loro Governi. Dinanzi alla fermezza delle autorità degli Stati le cui delegazioni olimpiche erano presenti nel territorio sede delle gare (il Presidente non li nomina specificamente, ma dalle sue parole si comprende che si riferisce a numerosi Stati presenti alla competizione olimpica)[1], il Comitato Internazionale doveva quindi prendere atto che, in assenza di una esclusione degli atleti russi e bielorussi, non si sarebbero celebrati i Giochi paralimpici. Da un lato, dunque doveva tutelarsi la sicurezza degli atleti che soggiornano nei villaggi olimpici – “[…] and the situation in the athlete villages is escalating and has now become untenable– e dall’altro si doveva salvaguardare la realizzazione della stessa competizione sportiva – “With this in mind, and in order to preserve the integrity of these Games and the safety of all participants. Di qui, in conformità alla “costituzione” –  “[…] first and foremost, we have a duty as part of the Paralympic mission, enshrined in the constitution” –  le ragioni dell’esclusione dalle gare di tali atleti[2], ai quali, come detto, non poteva essere imputata alcuna responsabilità diretta, al punto che il Presidente Parsons si scusava con loro, addebitando ai rispettivi Governi la causa dell’esclusione – “[…] To the Para athletes from the impacted countries, we are very sorry that you are affected by the decisions your governments took last week in breaching the Olympic Truce”.  In definitiva, gli 83 atleti russi e bielorussi presenti nei villaggi olimpici erano vittime delle azioni dei loro Governi – “[…] you are victims of your governments’ actions”.

Trattasi di una decisione mai adottata nelle competizioni olimpiche, ma che, a onore del vero, scaturiva da un comportamento di uno Stato mai verificatosi in passato: da quando De Coubertin aveva restituito allo sport le gare olimpiche, infatti, mai uno Stato aveva violato apertamente la tregua olimpica. Che si fosse in presenza di tale situazione è del resto fuor di dubbio: da quando esistono gli sport paralimpici, infatti, le due competizioni, ossia le Olimpiadi e le Paralimpiadi, si sono susseguite con pochi giorni di distanza l’una dall’altra e si sono tenute nella stessa sede. Dunque, la competizione olimpica è unica. Colpisce, del resto, che lo stesso Presidente russo Putin, alcuni giorni prima, abbia addirittura presenziato alle competizioni olimpiche incontrando il Presidente cinese, attribuendo, quindi, grande importanza all’evento olimpico. Peccato che poi, ordinando l’invasione dell’Ucraina a distanza di pochissimi giorni dall’inizio delle Paralimpiadi, dimostrava di non attribuire alcun valore allo sport paralimpico. Già in passato, preme osservare, alcuni Governi avevano utilizzato l’arma del boicottaggio come forma di protesta, non inviando le proprie delegazioni alle gare olimpiche, stigmatizzando, così, i comportamenti e le azioni di altri Stati. Tuttavia, mai si era verificato che atleti già presenti ad una competizione olimpica, avessero dovuto abbandonare il villaggio perché i rispettivi Governi avevano dichiarato guerra ad un altro Paese. Nei Giochi olimpici di Melbourne iniziati il 22 novembre 1956, per esempio, le delegazioni di Spagna, Paesi Bassi e Svizzera decisero di non inviare i propri atleti in segno di protesta contro l’invasione dell’Ungheria da parte dell’Unione sovietica, ma in quel caso non era stata violata la tregua olimpica perché la guerra era stata rapidissima, essendo iniziata il 23 ottobre e conclusa il 4 novembre quando fu ricostituito un governo filosovietico diretto da János Kádár. Analogamente, l’invasione dell’Afghanistan, sempre da parte dell’Unione Sovietica, cui fece seguito il boicottaggio di 65 delegazioni (tra le quali, quelle di Stati uniti, Canada, Israele, Giappone, Cina e Germania Ovest) alle Olimpiadi di Mosca, non aveva violato la tregua olimpica essendo iniziata un anno prima (nel dicembre 1979).

Il caso in epigrafe è dunque unico. Anzi, è molto probabile che l’atto in sé di violazione della tregua olimpica attraverso un atto di guerra fosse inimmaginabile per i redattori della Carta olimpica al punto da non ritenere di dover inserire una norma espressa nel Testo. La spiegazione è plausibile: trattasi di un fatto talmente grave da non avere bisogno di tradursi in un divieto espresso: “rompere” la tregua olimpica invadendo un Paese si trasduce infatti nella “rottura” di tutto il “giocattolo” olimpico. A questa conclusione si perviene dalla lettura ed interpretazione teleologica della stessa Carta. Quest’ultima, autodefinendosi “a basic instrument of a constitutional nature”, si articola in 7 principi fondamentali (i primi articoli definiti, appunto, i Principi fondamentali dell’Olimpismo) seguiti da 61 regole a loro volta dettagliate in numerose disposizioni attuative (bye-laws). Essa, come tutte la Carte costituzionali statali, prevede un procedimento aggravato per la sua modifica (regola 18)[3] e, sempre sulla falsariga delle Costituzioni statali, identifica il suo “popolo”, ossia il Movimento olimpico, non solo in un motto – Citius ± Altius ± Fortius – ma anche in una bandiera. In altra sede (cfr. intervento del 28 febbraio scorso su questo blog), avevo osservato che la Carta, per queste sue caratteristiche, proprio come le Costituzioni statali, dovrebbe essere interpretata alla luce dei principi ivi contemplati, regolando le diverse fattispecie attraverso il bilanciamento degli uni con gli altri, non senza dimenticare che il fenomeno dell’Olimpismo deve però convivere con gli ordinamenti costituzionali dei Paesi democratici e con le convenzioni internazionali ratificate dalla maggior parte di essi.

Ebbene, nel caso in epigrafe, si deve anzitutto richiamare il principio fondamentale n. 5, il quale, dopo aver ribadito la centralità dello sport nella società, stabilisce che tutte le organizzazioni sportive aderenti al Movimento olimpico devono essere politicamente neutrali – “[…] shall apply political neutrality”. In correlazione a questo dovere, le Istituzioni ed i soggetti del Movimento olimpico hanno il diritto-dovere di autonomia, ossia di avere il totale controllo delle regole dello sport  - “[…] they have the rights and obligations of autonomy, which include freely establishing and controlling the rules of sport” –, determinando le rispettive strutture di governo nel rispetto dei principi di buon governo – “[…] enjoying the right of elections free from any outside influence and the responsibility for ensuring that principles of good governance be applied”. Tale principio, come già detto, è correlato alla regola 50 che rafforza il dovere di neutralità politica, vietando ai soggetti del Movimento olimpico di porre in essere ogni tipo di “dimostrazione politica” – “[…] or political, religious or racial in tutti luoghi dove si svolgono le competizioni sportive – “[…] in any Olympic sites, venues or other areas”.  Parimenti correlata a questo caso è la regola 6, che stabilisce che i Giochi olimpici sono competizioni tra squadre ed atleti e non tra Paesi – “[…] and not between countries” – e gli atleti, a loro volta, devono essere selezionati dai rispettivi Comitati olimpici (e non dagli Stati).

In questo quadro si inserisce la decisione adottata dal Comitato internazionale paralimpico. A tal fine, è anzitutto coerente domandarsi, non esistendo alcuna specifica norma che impone l’espulsione degli atleti i cui Governi hanno violato la tregua olimpica, quale sia la base giuridica della decisione adottata che avrebbe fatto venire meno il generale principio di neutralità politica. Quali sono le fonti giuridiche della esclusione degli atleti russi e bielorussi, posto che le Olimpiadi, come più sopra affermato, non sono competizioni tra Stati, ma tra atleti? Non sarebbe stato sufficiente inibire gli atleti russi e bielorussi dall’utilizzazione delle bandiere nazionali e dalla rappresentazione dei loro inni? La risposta è nelle stesse parole del Presidente Parsons. In forza della “costituzione” olimpica, ha affermato, il Comitato ha il “dovere” di “garantire e sovraintendere alla buona riuscita dei Giochi paralimpici”, i quali, a causa dell’escalation del conflitto, sono a rischio, sia per la “sicurezza” degli atleti che soggiornano nei villaggi sia per la minaccia di ritiro di quasi tutte le delegazioni presenti in Cina[4].  Preme osservare che ai sensi del principio fondamentale n. 2, la finalità dell’Olimpismo è quella di porre lo sport al servizio dello sviluppo armonioso dell’umanità, al fine di promuovere una società pacifica in cui sia preservata la dignità umana. Di conseguenza, è lampante che il principio di neutralità politica debba regredire se un Paese muove guerra ad un altro durante le Olimpiadi, in quanto il primo trasgredisce, prima di tutto, l’essenza stessa dell’Olimpismo. Le autorità di governo dello sport, in simili eccezionalissime circostanze, non possono che cedere alla “ragion di stato” derivante dalla decisione concorde di quasi tutti i Governi cui fanno capo le delegazioni presenti nella competizione olimpica: le Olimpiadi, infatti e per definizione, non hanno ragion d’essere se si è in guerra e se a causa di essa vi partecipano un numero risibile di atleti.



[1] Questo passaggio si ritrova nel comunicato: “Multiple NPCs, some of which have been contacted by their governments, teams and athletes, are threatening not to compete”.

[2] Ancora, nel comunicato: “[…] to guarantee and supervise the organization of successful Paralympic Games, to ensure that in sport practiced within the Paralympic Movement the spirit of fair play prevails, violence is banned, the health risk of the athletes is managed and fundamental ethical principles are upheld”.

[3] Art. 18 Carta olimpica: “The quorum required for a Session is half the total membership of the IOC plus one. Decisions of the Session are taken by a majority of the votes cast; however, a majority of two-thirds of the votes cast is required for any modification of the Fundamental Principles of Olympism, of the Rules of the Olympic Charter, or if elsewhere provided in the Olympic Charter.

[4] Anche se, preme osservare, non è incongruo affermare che tra gare olimpiche e gare paralimpiche non possa esserci per definizione discontinuità temporale, posto che le seconde seguono sempre a distanza di pochi giorni dalla fine delle prime.

 

*Prof. Luigi Melica (nella Foto) 

 


 

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